Approfondimento
“Se cerchi di dominare gli altri, sei già sconfitto. Noi studiamo come risolvere il conflitto, non come accenderlo.”
Questa frase, che Daniel Goleman riprende in Intelligenza Emotiva, mi è sempre rimasta impressa, perché descrive in poche parole un atteggiamento molto diffuso: trasformare il confronto in uno scontro.
I momenti di confronto in azienda sono fondamentali. È dalla divergenza di opinioni che nascono le migliori soluzioni. A volte, però, i confronti si trasformano in conflitti. Critiche e obiezioni possono diventare il pretesto per definire (o ridefinire) posizioni di potere, responsabilità o margini di autonomia. Il contrasto non ha più come obiettivo la risoluzione di bisogni oggettivi (trovare la soluzione ad un problema), ma diventa un fatto personale. In queste dinamiche, chi cede “perde”. E a nessuno piace perdere: il risentimento alimenta nuovo conflitto.
Ma davvero un conflitto si deve risolvere con un vincitore e un perdente?
Goleman attribuisce la frase con cui ho iniziato, al maestro di arti marziali Ueshiba. Nella prima metà del ’900, Morihei Ueshiba sviluppa l’Aikido, una disciplina marziale il cui obiettivo non è vincere.
A differenza degli altri sistemi marziali, il fine ultimo dell’Aikido non è la sconfitta dell’avversario, ma la neutralizzazione dell’attacco. È importante che l’avversario rimanga illeso, ma al tempo stesso che la sua minaccia non provochi danni. L’aikidoka si preoccupa di proteggere l’avversario con la stessa cura con cui protegge se stesso. Se l’avversario viene sconfitto, molto probabilmente maturerà in lui il desiderio di rifarsi, rappresentando una continua minaccia. Se invece l’attacco viene neutralizzato senza arrecare danni, l’avversario avrà l’opportunità di desistere e cambiare approccio, smettendo così di costituire una minaccia.
L’Aikido propone quindi una filosofia di risoluzione del conflitto: né vincitori, né vinti, ma conservazione della relazione e neutralizzazione della minaccia.
E in azienda?
Nei primi anni ’60, in contesti culturali completamente diversi, Thomas Gordon sviluppa un metodo di risoluzione dei conflitti: il “No-Lose Method” (metodo senza perdenti). La filosofia alla base del metodo è la stessa: se il conflitto produce sconfitti, il risentimento generato farà da propulsore per un nuovo conflitto. Se nessuno perde (o meglio, se nessuno ha la percezione di aver perso), non c’è risentimento e aumenta la probabilità di una chiusura duratura.
Gordon individua nel metodo senza perdenti il miglior strumento per risolvere i conflitti Manager-collaboratore. Un processo in 6 fasi che parte dalla comprensione profonda dei reali motivi alla base del conflitto fino alla definizione di una soluzione condivisa efficace e duratura.
Prima di analizzare nello specifico le 6 fasi, definiamo bene il contesto in cui è utile applicare il metodo e i benefici che possiamo attendere affrontando la risoluzione del conflitto in questo modo.
Supponiamo di essere nella seguente condizione: sei un manager e hai da poco assegnato un nuovo incarico a un tuo collaboratore. Dopo qualche settimana di monitoraggio, ti accorgi che la qualità del lavoro è sotto le aspettative. Durante un colloquio di feedback, esprimi al tuo collaboratore le tue perplessità e gli chiedi di allinearsi al livello qualitativo atteso. In modo molto educato ma risoluto, il tuo collaboratore ti fa presente che ha un sacco di lavoro da fare, che l’incarico gli è stato affidato senza nemmeno chiedergli un parere, che a suo avviso ci sarebbero altre persone che potrebbero occuparsene e che, in sostanza, non crede di riuscire a restituire un livello qualitativo superiore a quanto già espresso.
Ora, di fronte a una situazione come questa, abbiamo (apparentemente) due possibilità:
Metodo 1
Si fa come dici tu. Sei il capo. Se hai assegnato l’incarico a quel collaboratore, significa che hai le tue buone ragioni. Il livello qualitativo richiesto è assolutamente raggiungibile. Ti aspetti che il tuo collaboratore si allinei al più presto e glielo dici chiaramente. Se ciò non accadrà, sarai costretto a prendere provvedimenti.
TU vinci, LUI perde. Il tuo collaboratore subisce l’esercizio del tuo potere e si adegua. I tuoi bisogni sono soddisfatti, i suoi no. Apparentemente è tutto risolto. La qualità del nuovo lavoro raggiungerà in breve il livello desiderato. Tutto ok? A volte sì, spesso no. La sconfitta genera risentimento: uno stato d’animo che può emergere nelle più disparate situazioni. Spesso le persone che “subiscono” il potere rispondono con atteggiamenti difensivi (o di attacco, a seconda dell’approccio personale) che logorano la relazione: resistenza, ostilità, coalizione contro la figura di autorità oppure, al contrario, arrendevolezza, conformismo, fuga. Apparentemente hai risolto il problema, ma molto probabilmente sarai costretto ad affrontare altri conflitti, forse ancora più intensi di questo.
Metodo 2
Va bene. Non ami i conflitti e preferisci risolverli nel più breve tempo possibile, a costo di venir meno alle tue necessità. Toglierai l’incarico al tuo collaboratore e troverai qualcun altro che se ne possa occupare. Se non trovi nessuno, lo farai tu. Il costo del conflitto può essere troppo alto. Meglio spegnere l’incendio subito.
LUI vince, TU perdi. Ora sei tu però che provi risentimento verso il tuo collaboratore. I suoi bisogni sono stati soddisfatti, i tuoi no. Forse avremo trovato una soluzione di breve termine, ma la relazione con il tuo collaboratore sarà la stessa di prima? Avrai ancora fiducia in lui? Saprai ancora restituirgli feedback serenamente oppure ti tratterrai per poi esplodere? E gli altri membri del team, cosa penseranno? Hai ancora la stessa autorevolezza di prima?
Il principio alla base dei metodi 1 e 2 è l‘esercizio del potere. Il potere non è solo prerogativa di chi occupa una posizione gerarchica superiore. Avere potere significa avere i mezzi per togliere o dare agli altri qualcosa di cui hanno bisogno. Facciamo un esempio: il manager ha il potere di concedere o meno un permesso a un collaboratore. Il collaboratore ha il potere di dare o negare la propria disponibilità a lavorare a un progetto extra, la cui adesione non è obbligatoria.
Come vediamo, l’esercizio del potere non è prerogativa del manager. Nel metodo 1 il manager usa il potere per obbligare il collaboratore a fare ciò che non vuole fare, nel metodo 2 è il collaboratore che usa implicitamente il suo potere condizionando le scelte del manager.
Il metodo 1 e 2 si basano sull’imposizione di una soluzione che genera risentimento a causa dell’esercizio del potere.
Il terzo metodo si fonda sulla neutralizzazione dell’effetto negativo provocato dall’esercizio del potere. Se nessuno esercita il potere per risolvere il conflitto, non si genera risentimento. Una soluzione però va trovata, altrimenti il conflitto non si risolve. La soluzione dovrà quindi soddisfare i bisogni di entrambi. Gordon chiama il processo “problem solving partecipativo”. Il processo funziona solo se i partecipanti accettano alcune regole fondamentali:
• non esistono soluzioni preconcette
• i partecipanti sono aperti ad accettare soluzioni che soddisfino i bisogni di entrambi
• è fondamentale far emergere i bisogni reali (non le soluzioni preconcette)
• le soluzioni devono essere costruite insieme
Ecco le 6 fasi:
Fase 1: Identificare e definire il problema
È importante comprendere che, molto spesso, i bisogni emotivi sono alla base dei conflitti. Il vero bisogno non è voler fare o non voler fare qualcosa, oppure volerlo fare in modo diverso, ma cosa rappresenta l’oggetto per i propri bisogni emotivi. Mi oppongo perché ritengo di non essere valorizzato? Perché credo di essere sfruttato? Perché vorrei avere più visibilità? Perché non mi sento ascoltato? In questa fase è necessario far emergere tutti i bisogni, soprattutto quelli emotivi.
Strumenti: domande aperte, ascolto attivo (senza giudizio), messaggi in prima persona per formalizzare i propri bisogni.
Importante: la completa trasparenza nella formalizzazione dei bisogni reciproci è alla base del buon funzionamento del metodo.
Fase 2: Lasciare emergere ogni soluzione possibile
Come in una sorta di brainstorming, facciamo emergere quante più soluzioni possibili. In questa fase la qualità non è importante, conta molto più la quantità. Quanto più consistente è il materiale su cui potremo lavorare nelle prossime fasi, tanto maggiore sarà la probabilità di trovare una soluzione condivisa. La valutazione della fattibilità delle soluzioni sarà oggetto delle prossime fasi. In questa fase accogliamo tutte le proposte senza giudicare.
Strumenti: domande aperte, ascolto attivo, comunicazione assertiva.
Importante: la regola fondamentale deve essere: nessun giudizio, nessuna valutazione.
Fase 3: Valutare le possibili alternative
A questo punto l’obiettivo è valutare singolarmente ogni soluzione. Se procediamo per esclusione, il primo fattore da considerare è: la soluzione soddisfa i bisogni di entrambi? E poi: quali bisogni non soddisfa? Possiamo modificarla in modo che soddisfi tutti i bisogni? È attuabile? Come possiamo modificarla per renderla attuabile?
Strumenti: domande aperte influenzate, domande chiuse, ascolto attivo.
Importante: tutte le soluzioni hanno pari dignità, ma ogni soluzione deve essere validata da entrambi.
Fase 4: Scegliere la soluzione migliore
Dall’insieme delle possibili soluzioni rimaste, scegliamo la soluzione migliore.
Strumenti: comunicazione assertiva, ascolto attivo.
Importante: la decisione deve essere accettata da tutti. Non dobbiamo fare pressioni affinché venga scelta la nostra soluzione. Assicuriamoci che la soluzione sia realmente condivisa.
Fase 5: Implementare la soluzione
Definire chiaramente chi fa cosa e quando. Un piano d’azione ben definito evita le false partenze.
Strumenti: obiettivi SMART, matrice RACI, timeline.
Importante: assicurarsi che tutti abbiano chiaro il proprio ruolo. La chiarezza e la trasparenza nella fase di esecuzione è essenziale per mantenere l'accordo condiviso e prevenire incomprensioni o false aspettative.
Fase 6: Verificare la soluzione
È importante fissare subito un incontro futuro per valutare gli effetti del piano di azione ed eventualmente condividere le azioni correttive. All’inizio meglio prevedere delle verifiche a breve termine, poi quando la situazione inizia a stabilizzarsi, possiamo diradare gli incontri fino ad azzerarli completamente quando i risultati saranno aderenti alle aspettative.
Strumenti: ascolto attivo, comunicazione assertiva.
Importante: le decisioni possono sempre essere riviste, ma nessuno può farlo unilateralmente.
Come possiamo vedere, il metodo senza perdenti ha un punto forte evidente ed un’area critica:
• L’efficacia della soluzione: le persone sono molto più motivate a realizzare ciò che hanno contribuito a creare. Il metodo senza perdenti riduce le resistenze e facilita l’emersione delle soluzioni in caso di problemi. La relazione tra i partecipanti si rinforza e si riducono le probabilità di futuri conflitti.
• La durata del processo: è evidente che i metodi 1 e 2 prevedono un tempo di attuazione molto breve. In fin dei conti si tratta di decidere se esercitare il potere oppure subirlo. In entrambi i casi, però, il tempo “risparmiato” ci presenterà il conto. Se le soluzioni sono imposte, aumentano le resistenze, si moltiplicano i problemi (ai quali raramente si accompagnano proposte di soluzione), la relazione si incrina e aumentano le probabilità di dover gestire in futuro altri conflitti.
Dal mio punto di vista, e per l’esperienza che ho maturato applicando i tre metodi, il metodo senza perdenti è in assoluto il modello da preferire per la risoluzione dei conflitti verticali. D’altra parte, il modello stesso richiede una cura e un investimento di tempo iniziale relativamente superiore rispetto ai metodi 1 e 2.
Scegliere di investire tempo oggi significa costruire relazioni e risultati duraturi, invece di risolvere solo l’emergenza del momento.